Approfondimento

30/10/20

Reato di minaccia: giurisprudenza a confronto

(In)sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di minaccia: commento a sentenza Cassazione Penale, Sez. V, n. 9392 depositata il 10 marzo 2020.

Idoneità della minaccia ad integrare il reato, in relazione all’insussistenza dell’intimidazione: commento a sentenza Cassazione Penale, Sez. V, n. 12729 depositata il 22 aprile 2020.

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Sentenza Cass. Pen. Sez. V, sentenza n. 9392 depositata il 10 marzo 2020.

La vicenda: con sentenza del 31.10.2018 il Tribunale di Caltanissetta, in parziale riforma della sentenza del locale Giudice di Pace del 6.3.2017, ha condannato l’imputato alla pena di legge, per i reati di cui agli artt. 81 cpv., 612 co. 1 e 582 c.p.. All’imputato risultano ascritte le condotte dell’aver proferito frasi minacciose (“comunque non finisce qui”) nei confronti della persona offesa e di aver afferrato quest’ultimo per il collo, cagionandogli lesioni (abrasioni al collo, guaribili in giorni 5-7).

Ricorre per cassazione l’imputato con plurimi motivi di censura, tutti dichiarati infondati e non meritevoli di accoglimento: quello che qui interessa analizzare è l’ultimo, relativo all’insussistenza dell’elemento oggettivo.

Secondo il ricorrente l’espressione incriminata (“comunque non finisce qui”) deve essere inserita nel peculiare contesto di liti pendenti tra le parti e, pertanto, riferita all’ulteriore esercizio di azioni giudiziarie, sicché non può integrare una minaccia.

Di parere opposto la Corte di Cassazione nella sentenza in commento, secondo la quale “l’assunto difensivo non può essere condiviso. Se è pur vero, infatti, che l’espressione “comunque non finisce qui” in sé non risulta avere una connotazione univocamente minacciosa, essendo pressoché neutra, ben potendo anche alludere ad un mero prosieguo delle attività di tutela dei propri diritti in sede giurisdizionale, tuttavia, nella fattispecie in esame, proprio per il contesto ed il momento nel quale è stata proferita (pronunciata dall’imputato dopo l’aggressione e le lesioni effettuate nei confronti della p.o. mentre stava allontanandosi), nonché per i toni e la cornice di riferimento, non può che intendersi come prospettazione di un’ulteriore attività aggressiva illegittima e, quindi, integrare il reato di minaccia.

La motivazione della Corte riposa sul fatto che non deve essere trascurata la rilevanza da attribuire al contesto in cui le frasi sono proferite, in ordine alla loro potenziale capacità ad incidere sulla libertà morale del soggetto passivo (così Cass. Pen. Sez. V, sentenza n. 8193/2019).

Nel caso sottoposto al nostro esame l’espressione è stata utilizzata in un contesto di violenza fisica (il ricorrente è stato condannato anche per lesioni personali) e morale, che connota minacciosa l’espressione pronunciata dall’imputato.

Peraltro, affinché sia integrato il reato di minaccia è necessario che la condotta dell’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale del soggetto passivo (ex multis, Cass. Pen., Sez. I,  Sentenza n. 44128/2016) e che ci sia un effettivo effetto intimidatorio.

La giurisprudenza ha statuito che “elemento essenziale del reato di minaccia è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato, dal colpevole, alla parte offesa. Se è vero che non è necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente nella vittima, bastando la sola attitudine ad intimorire, è indispensabile, però, che il male ingiusto possa essere dedotto dalla situazione contingente” (Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 51246/2014).

È evidente che nel caso in commento per le modalità con cui è stata pronunciata la frase “comunque non finisce qui” la medesima è stata ritenuta idonea a far sussistere il reato di cui all’art. 612 C.P.

Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 12729 depositata il 22 aprile 2020.

La vicenda: il Giudice di Pace di Brescia, con la sentenza oggetto di impugnazione, ha assolto l’imputato dal reato di cui all’art. 81, 612, comma 2, cod. pen. perché il fatto non sussiste, ritenendo l’insussistenza del dolo.

La contestazione era riferita a reiterate minacce gravi profferite dall’imputato stesso, mentre si intratteneva, durante la cena, con la parte offesa, madre della loro figlia minore, nei confronti della quale, secondo la tesi accusatoria, avrebbe pronunciato le frasi oggetto del capo d’imputazione “le donne stanno bene tutte ammazzate”, precisando anche che “lui era a favore del femminicidio e che, se non si fosse sporcato le mani lui, le avrebbe fatte sporcare a qualcun altro ma non avrebbe permesso alla persona offesa di portare via la bambina, l’avrebbe lasciata sulla sedia a rotelle”.
Avverso la sentenza di assoluzione resa dal Giudice di Pace ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Brescia che ha dedotto che il riferimento al difetto di dolo, di cui alla motivazione censurata, non trovava correlazione nella formula assolutoria adottata (perché il fatto non sussiste) e nella rilevata assenza di intimidazione che, invece, attiene all’elemento oggettivo del reato.
Osserva, inoltre, il ricorrente che, ai fini della sussistenza del reato di minaccia, trattandosi di reato di pericolo, è sufficiente l’idoneità della minaccia da valutarsi con criterio medio, in relazione alle concrete circostanze del fatto, senza che sia necessario che il soggetto sia effettivamente intimidito dalla condotta dell’agente.

La sentenza assolutoria del Giudice di Pace fondava la motivazione su quanto riferito dalla persona offesa a dibattimento e cioè di non essersi sentita intimidita dalle dichiarazioni rese dall’imputato, né di aver percepito intimidazione per la figlia minore presente ai fatti.

La decisione: in primis la Corte ha rilevato la discrasia tra la motivazione in ordine al difetto dell’elemento soggettivo e la formula assolutoria adottata nel dispositivo “perché il fatto non sussiste”.

Il ragionamento logico.giuridico fatto proprio dal giudice di primo grado (seppur errato per le motivazioni di cui infra) avrebbe dovuto comportare l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato, stante l’asserito difetto di dolo.

È evidente che l’assoluzione con la formula più ampia stride con la motivazione posta a fondamento della decisione.

Ma la sentenza in commento ha ritenuto la decisione impugnata meritevole di annullamento anche per altri motivi.

Come detto l’assoluzione è stata pronunciata perché la persona offesa ha escluso di essere sentita intimidita dalle espressioni utilizzate dall’imputato.

Sul punto la Corte, facendo rimando a precedenti conformi, ha statuito che “ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 612 cod. pen., trattandosi di reato di pericolo, è sufficiente l’idoneità della minaccia da valutarsi con criterio medio, in relazione alle concrete circostanze del fatto, senza che sia necessario che il soggetto sia effettivamente intimidito dalla condotta dell’agente. Sotto tale profilo va, infatti, condiviso l’orientamento di questa Corte secondo il quale, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 612 cod. pen., non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta dell’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima. Sicché l’eventuale atteggiamento minaccioso o provocatorio non influisce sulla sussistenza del reato, potendo eventualmente sostanziare una circostanza che ne diminuisca la gravità, come tale esterna alla fattispecie”.

Facendo applicazione di tali principi di diritto al caso sottoposto al nostro esame, è evidente che le espressioni utilizzate dall’imputato, per la loro gravità, connotano un atteggiamento minaccioso, che può incidere sulla libertà morale delle persona offesa.

E ciò a prescindere dall’esclusione di un atteggiamento minaccioso (riferito non sussistente dalla stessa persona offesa) che potrebbe, a tutto concedere, intervenire sulla gravità della minaccia ed eventualmente sul trattamento sanzionatorio, ma non sull’integrazione del reato di cui all’art. 612 C.P..

La sentenza di primo grado è stata annullata, con rinvio al Giudice di Pace di Brescia per nuovo esame.

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